John Axelrod e David Garrett al San Carlo di Napoli
David Garrett si prende la scena con il suo violino. E il suo fisico. È una star il violinista del diavolo [da quando ha interpretato Paganini]. John Axelrod vestito di nero dirige l’orchestra. Con modi discreti e gentili. Suonano il Concerto n°1, in sol minore per violino e orchestra, op. 26 di Max Bruch. Il solista e il tutti. È un dialogo. La voce del solista si dispiega. Poi ritorna su se stessa. Si fa malinconica e vigorosa. Racconta una storia. L’orchestra ne è il controcanto. Asseconda o si contrappone. Accoglie o mette alla prova. Sottolinea il ritmo del processo individuale [una musicista che ha sbirciato il cellulare fino a un attimo prima dell’inizio del concerto percuote il bongo, una altro fa vibrare il triangolo]. Come in una narrazione. Io non sono un esperto musicale [tutt’altro]. Dico quello che mi piace. Mi piace seguire la musica come se fosse una pagina di letteratura. Seguire la vicenda tra un singolo e il tutti. Sentire l’interazione. Quanto l’uno modifichi l’altro. O quanto non si lasci modificare. Quando cioè prevale l’individuo. Mi piace di più. Ma so che sempre compie un processo. Un’esperienza. Un rapporto. La musica te lo fa sentire. La sua potenza trasporta in un mondo di parole senza equivoci. Una koiné di altro genere. E davanti a me si costruisce una storia. Fatta di tempo e spazio. La musica è tempo e spazio.
Come l’architettura. La musica entra nella pelle. Si diffonde. Infine occupa tutto lo spazio. Quello fisico del teatro intendo. Come il vortice di un ciclone. Il suono diventa l’architettura dello spazio. Puro. Preciso. Emozionante. Il negativo del vuoto.