È un libro che quando lo finisci ti sembra di aver aggiunto un pezzo di vita alla tua vita. Nel senso che hai qualche amico (letterario, quindi più vero della carne e ossa) in più. E hai attraversato situazioni che misteriosamente adombrano ad ogni passaggio la tua vita. Gli atteggiamenti sono diversi. E questo è sempre il punto. Perciò si legge tanto.
Jonathan Miles racconta tre storie parallele. C’è qualche lieve contatto tra esse, ma sostanzialmente restano tre storie. O meglio. Resta la ricerca di un senso. Questo unisce e trasforma la narrazione in un coro. Sembra che i personaggi siano troppo esposti alla vita e cerchino di conoscere la direzione del proprio destino. Oh, nel momento stesso in cui si compie. E poiché molto spesso non possono proprio far nulla per deviarne il corso, non resta altro da fare che sorridere. Ironia. Gioioso fatalismo. Una specie di fiducia che comunque un briciolo di tutto si possa alla fine salvare. E trasformare. In una cosa diversa, certo, ma che in ogni caso ne valga la pena. E quindi fanno cose. Apparentemente bislacche ma che producono Realtà.
Elwin è il mio preferito. Grassone. Sfigato. Linguista. Con un padre che sta morendo di Alzheimer. E con un improbabile alter ego, il giovane Christopher che va a vento come pochi. C’è una scena. Una corsa in spiaggia in un fuoristrada trasformato da Christopher in una macchina da circo e un bagno in mare. E una donna. Infine anche Elwin si tuffa. Una cosa liberatoria. E dolce.
Io mi sono commosso