Leggere le poesie di Jorie Graham è scomodo. Occorre girare il libro. I versi sono impaginati in orizzontale. E sono lunghi e tra loro sfalsati. Ma questo dà il primo indizio di lettura. Va spostato il punto di vista. Come succede sempre con la poesia. Solo che qui lo devi fare proprio fisicamente. Devi fare un’azione.
Poi le poesie sono come narrazioni. Lunghe. Complesse. Incalzanti. Tanto che a un certo punto ti sembra di soffocare. Finché non capisci e ti sposti sullo stesso piano. Che è un piano epico direi. Jorie Graham è americana. E su quello stesso piano mi pare di incontrare uno come Faulkner [e io che non sono un critico ma solo un lettore posso correre il rischio di fare certi accostamenti]. Allora accade che la morsa si scioglie e te la godi.
D’altra parte queste poesie brulicano di presenze. Gente che sembra abbiano attraversato l’esistenza di Jorie Graham. Con cui lei ha parlato. Che l’hanno sorpresa lungo una spiaggia o nell’intrico di un bosco. Gente ma anche animali. O cose. O piante. Un uomo a cavallo. Un violinista. Un tronco. Un melo. Una talpa. Ma c’è l’inganno. Perché questa folla è colta nel punto limite. Nell’atto di sparire. Di trasformarsi in nulla.
Resta una tensione. Oh, cosa conosciuta. Ma resta anche l’unica cosa in grado di arginarla: lo sguardo limpido del poeta. Che ognuno di noi possiede a modo suo.
Non conoscevo Jorie Graham. È stato un incontro. E il titolo del libro [Il posto] ci colloca in un luogo sospeso.