All’aeroporto un tizio con la barba viene nella mia direzione. Lo noto perché ha addosso una camicia di flanella e basta. E fa un freddo cane. Parla ad alta voce. In inglese con una cadenza americana. E quando siamo più a tiro sono all’erta e noto l’incongruenza. Ha un baffo bianco. Uno solo. Una cuspide bianca nella peluria nera e folta. Come un accento. O più precisamente un ERRORE.
Eccolo l’errore. Una cosa preziosa. Ma è cosa risaputa ormai. Qui mi sembra di cogliere un’altra coordinata. L’errore può essere cifra di riconoscibilità. Cioè rendere il portatore dell’errore [persona o disegno o progetto] un unicum. E generare relazioni di un genere speciale.
Uno scrittore come Jun’ichirō Tanizaki descrive donne stupende. E l’elenco delle componenti della bellezza femminile sono tante imperfezioni, i denti larghi o gli occhi lievemente strabici. Cose così. Che portano fuori dalla routine.
Michele De Lucchi scrive: “Gli errori alla fine servono per scoprire quello che la ragione non ci farebbe mai vedere ed essendo impossibile non sbagliare mai, l’importante è creare quello che ogni errore svela.”
L’uomo con il baffo bianco è passato senza avere minimamente idea di quanti pensieri ha suscitato. Così accade tra persone che sembra si sfiorino soltanto. Invece una specie di filo invisibile mette in moto un mondo. Non conosco il suo nome e lui ignora la mia esistenza. Eppure su un altro piano, ignari e immemori, siamo amici. Avrà preso il suo aereo e chissà in quale casa sarà approdato.