Mi chiamo Lucy Barton

Mi chiamo Lucy Barton

Non posso mai perdermi un libro di Elizabeth Strout. Ma quando ho visto in libreria Mi chiamo Lucy Barton ho esitato. Uno, perché è edito da Einaudi e rompe la tradizione grafica delle copertine di Fazi. E due, più importante, perché è un piccolo libro. 161 pagine a 17,50 euro. I libri precedenti (li ho letti tutti) sono intorno alle 4/500 pagine. Ecco, ho pensato, un’altra che a secco di ispirazione mette giù un libretto di mestiere solo per fare soldi. Come ad esempio Philip Roth. Ma per fortuna l’ho preso lo stesso. C’era questa immagine in copertina, un po’ iperrealismo americano: il grattacielo Chrysler alla maniera di un Richard Estes per capirci, e un po’ Edward Hopper. Mi ha convinto.

 
La storia è una non storia. Lucy Barton resta in ospedale per una complicazione post-operatoria. Improvvisamente arriva la mamma che non incontrava da anni. Viene da una cittadina sperduta dell’Illinois e resta cinque giorni e cinque notti. Da Amgash Lucy è scappata. Ma è scappata dalla miseria stringente di un’America rurale, dalla rabbia di un padre reduce di guerra, dalla stessa madre che non sembra mai amarla, da un fratello che legge ancora libri per bambini e dorme nella stalla, dalle umiliazioni della povertà estrema. Lucy va in un college, incontra una scrittrice, Sarah Payne (il nome è preso in prestito da un fatto di cronaca brutale che coinvolge una bambina, avrà un significato), e diventa lei stessa scrittrice.
Ma in quei cinque giorni le due donne parlano. Oh, pettegolezzi, piccole cose, gentilezze. Mai affondano le mani nella terra melmosa del passato. Mai la madre concede alla figlia il riconoscimento del dolore dell’infanzia. Ma resta lì. Solo cinque giorni, neanche fino alla guarigione. Ma sono sufficienti. Parole pacate (è lo stile della scrittura di Strout) e presenza per riaffermare una verità antica e splendida: che una madre e una figlia si amano.

 
Tutto qui. I libri di Elizabeth Strout hanno sempre per titolo i nomi dei protagonisti (Olive Kitteridge, Amy e Isabelle, I ragazzi Burgess….). Perché sono storie di persone.

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