Io me lo immagino John Updike con quella sua faccia strana dominata da un gran naso e incorniciata da capelli sottili da ragazzino mentre nella metropolitana sui marciapiedi nei bar, ovunque insomma, sbircia le persone e annota piccoli difetti, tic, posture, atteggiamenti. Le donne soprattutto. I seni, le gambe, i culi e tutto il resto. Perché nei suoi libri, e in questo Corri, Coniglio, c’è una ricchezza di caratterizzazione dei personaggi strepitosa. Niente è fine a se stesso. Ogni piccolo gesto, ogni macchia sulla pelle o vena varicosa, ogni capello fuori posto, ogni parola inopportuna e ogni fantasia sessuale, ogni cosa insomma illumina il carattere di un pezzo di umanità.
Coniglio è il protagonista di una saga. Si chiama Harry Angstrom e ho già parlato “qui” degli altri libri. Corri, Coniglio è il primo della serie. Harry è un tipico americano. Ex campione studentesco di basket, un po’ cialtrone. Lascivo, confuso, anaffettivo, irresoluto, egoista. Ma anche ostinato nel commettere sempre gli stessi errori, riconoscibile, divorato da un melmoso senso di libertà. Perciò fugge via dalla famiglia. Più volte. Ma non va troppo lontano. Appena dall’altra parte della stessa città divisa in due da una montagna, Brewer, una desolata città industriale della Pennsylvania. Tra le braccia amorevoli, queste sì, di una sgualdrina. Ma neanche questo è sicuro. Per poi tornare a casa. Da moglie, figlio, suoceri e genitori. Mai troppo convinto delle scelte. Né dei rapporti. Da qualche parte ho letto che Updike volesse rispondere in qualche modo a Kerouac: così va a finire chi, l’americano medio con famiglia, si mette on the road. Tutto ciò rende incredibilmente il personaggio amabile.
Fino alla tragedia finale. Così tutto cambia e lo sguardo dello scrittore si fa compassionevole. E Coniglio non è più solo. Perché il suo dolore, levigato e assoluto, è anche il nostro.