Due scrittori, due linguaggi e due storie molto diversi.
Don De Lillo prosegue la sua scrittura del futuro, da Cosmopolis alla Stella di Ratner fino a questo ZERO K. Ma ogni pagina che Don De Lillo ha scritto dagli anni 70 (Americana) ad oggi sembra provenire dal futuro con l’ossessione di penetrare il mistero della morte. Di fronteggiare quantomeno la morte. In ZERO K c’è una specie di laboratorio segreto nel paesaggio ghiacciato del Kazakistan dove un miliardario che ha fatto soldi speculando sui disastri dell’umanità vuol ibernare la sua donna amata e ammalata all’interno di un programma in grado di conservare le coscienze fino al giorno in cui la medicina avrà trovato i mezzi per guarire ogni malattia. E decide di seguirla in questa specie di morte. Poi cambia idea. Poi decide di nuovo. Accompagnato dal figlio che è l’opposto del padre. Incerto. Uomo di contemplazione piuttosto che di azione. Jeffrey insegue un amore che non ha saputo tenere. È più vicino ad un fallito. Ma soprattutto, l’uno accetta la morte mentre l’altro vuole sconfiggerla (come per ogni miliardario la morte è un affronto insopportabile). Non si parlano da anni ma la storia li mette difronte e pretende che si rifondi un rapporto. Don De Lillo non ha il cellulare e usa una macchina da scrivere Olympia del 75, veste con delle belle giacche di velluto e camicie a quadri ed è definito più o meno “lo sciamano della paranoia americana”. La scrittura poi, algida e distaccata come i luoghi dove dispiega la narrazione.
Eccomi è la storia di una famiglia in crisi. Ovviamente ebrei. Ovviamente intelligentissimi. La vicenda si svolge in poche settimane a ridosso del Bar Mitzvah del tredicenne Sam che parla e pensa come un genio da Nobel. Ma ho parlato con certi ebrei e mi dicevano come proprio la cerimonia del raggiungimento dell’età adulta porti i giovani ebrei a maturare prima. Può essere. Nelle poche settimane della storia si dispiegano quattro generazioni di famiglia, i ricordi del matrimonio felice e il dolore della separazione, l’ebbrezza del tradimento (vero o solo immaginato?) accompagnato da frasi sconce inviate da un cellulare che sarà scoperto e il senso della colpa, il richiamo della patria della religione e della guerra, ma anche una irrisolta voglia di negazione. Tutti i personaggi di età diverse intersecano le proprie esperienze ed ossessioni, il sesso la religione l’amore l’identità. E tutti dicono o fanno qualcosa di sbagliato e conseguenziale. Il libro, anzi la scrittura è travolgente, emozionante, irriverente, ironica, spiazzante, fluida. Viene da pensare a un talento che scriva di getto (lo so che non è così). Ma certo Jonthan Safran Foer è un grande talento e forse fin troppo, vive in una casa di molti milioni di euro, è vegetariano ed ha una moglie bella e famosa. Forse per questo colloca ad ogni svolta della narrazione la famiglia Bloch, tutta intera compreso il simpaticissimo cugino fastidioso ma sincero alter ego venuto da Israele, dall’altra parte del perbenismo e delle opinioni e comportamenti corretti.