Ritorno a Memphis

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Ho letto le ultime pagine di “Ritorno a Memphis” di Peter Taylor. Un libro del 1987 che valse all’autore il premio Pulitzer. Mi ha occupato l’intera domenica a meno dell’ultimo capitolo. L’avevo conservato come mi capita a volte quando sento che il culmine ha bisogno di una sospensione che lo prepari. Eppure non è il tipo di scrittura che preferisco. Cioè quando c’è un protagonista che racconta una storia e il protagonista poi altri non è che una specie di alter ego dello scrittore. Invece preferisco quando la storia si svolge insieme al lettore attraverso dialoghi. Molti dialoghi. Preferibilmente serrati. Quando le cose sono mostrate più che dette. Ma queste ultime pagine, dolci malinconiche minimali, hanno messo a fuoco una suggestione. Il libro parla di un sud urbano americano attraversato da personaggi borghesi. Alcuni sempre e troppo immutabili. Altri cercano un senso alla propria esistenza e sono disposti a cambiare. Anzi sono colti proprio nel momento in cui il cambiamento diventa bisogno. Ma il milieu è una specie di ragnatela. Persino il dramma del confronto risulta una cosina sottovuoto. Lo stesso inviluppo dentro cui ti lascia il libro. Lo stesso allaccio che certi luoghi_sud o altro che sia_ stringono intorno ai pensieri e le aspirazioni delle persone. O sogni, direi. E allora ho capito anche il senso dello stile. La trappola che lo scrittore ha teso a gente come me.

(…) Non saremo morti, mi immagino. Perché chi si immagina mai di morire? Ma da molto tempo non saremo stati “vivi quel tanto da avere la forza di morire” (…)

Ma c’è un dono in queste ultime sequenze. Un senso struggente del perdono. A buon diritto va a collocarsi nella bacheca dei miei “finali” indimenticabili.

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