Giallo d’Avola di Paolo Di Stefano (Sellerio editore) è un giallo ambientato nella metà degli anni cinquanta. La storia si svolge tra il 1954 e il 1961. Due fratelli dividono una masseria di montagna e si odiano coinvolgendo nelle liti mogli e figli. Finché uno dei due sparisce lasciando macchie di sangue sulla camicia dell’altro e sui calzoni del figlio. E su alcune pietre aguzze. Ma il corpo non viene ritrovato. Padre e figlio vengono accusati e condannati all’ergastolo. Mentre leggo penso che sono gli anni del boom economico. Comincia l’era della televisione. In quegli stessi anni mi ricordo che i miei genitori avevano comprato un televisore e la sera venivano gli zii e si guardava insieme lo schermo in bianco e nero. Ricordi appena accennati, nel ’60 avevo quattro anni. Ma era bella quella specie di comunità festante. Solo che nel libro di tutto questo non c’è traccia. La storia prosegue sul filo di un assurdo analfabetismo della coscienza: chi oggi potrebbe condannare due persone per un omicidio senza cadavere? Ma è la Sicilia del fu Mattia Pascal. Verità e menzogne si accostano e confondono. Un’arretratezza antica si incancrenisce in fenomeno antropologico. Tanto che lo scrittore ha la necessità ogni tanto di richiamare che in Italia è in atto un processo di civilizzazione. Che il presidente della Repubblica è Gronchi, che sono tornati i cadaveri dei minatori italiani morti a Marcinelle, che il vecchio Sturzo…o il presidente del consiglio Segni…E l’architettura? Dell’architettura non si parla mai. Eppure la Torre Velasca è del 1954. La chiesa di Baranzate è del 1956. La Bottega di Erasmo è del ’53. Il grattacielo Pirelli fu costruito dal ’56 al ’61. Scorre in quegli anni e in queste opere il filo della fiducia.
Ma resta come sempre assente dallo scenario letterario l’architettura. E non vi racconto il prosieguo del libro.