A mezz’altezza “qui” dentro

 

Lo sperimentalismo è un lento lavoro sulla pagina
Umberto Eco
La città è la città della poesia.
Il luogo è il mio studio.
Lo spazio è a mezz’altezza. E da mezz’altezza verso l’alto. Ma il punto di vista è sempre verso l’alto. È di ognuno.

I due fabbri hanno l’officina nel portone di fianco. Il falegname è di passaggio. Il meccanico aggiusta macchine sul marciapiedi occupato da automobili senza ruote. Un altro che non conosco. Rincagnato come un fossile. Faccio un segno. Di adunata. Entriamo in studio. Metto i caffè su un vassoio azzurro. In un angolo del tavolo. Dalla finestra gli alberi di arance e mandarini non ce la fanno a sopportare il peso e i frutti cadono in terra scoppiando tra foglie e piccole pozze negli avvallamenti del battuto di cemento. I ciuffi di erba zuppi d’acqua brillano al sole e in certi punti il colore vira verso il giallo oro. Il meccanico non ha molti denti. Il falegname non ha molte dita. I fabbri sono una coppia perfetta. Uno alto e lento. Con camice azzurro. L’altro piccolo e vulcanico. Una grande intelligenza. Mi sorprende ogni volta, trova soluzioni semplici e dirette. Lo sconosciuto fa il muratore. Il sole entra dalla finestra e porta una luce. Come un paesaggio al contrario qui dentro tutto sembra espandersi. Il falegname ha una perenne espressione ingrugnita. Oggi non ha gli abiti da lavoro e dal cappotto si vede una camicia bianca troppo sbottonata. Il meccanico aspetta di entrare nel giro. Ha l’aria come a dire: “verrà il mio momento”. Guascone quasi per obbligo nel suo giubbotto griffato Prada. Unto e consumato. Magari mi può sistemare il faro della macchina. Non si accende. Non è mestiere mio – dice. Gli lascio le chiavi. Si prenderà cinque euro. Nello studio abbiamo realizzato dei nuovi mobili. Strutture che partono da terra o dalla mezza altezza e salgono fino al soffitto. Con piedi e sportelli in ferro e tutto il resto in legno multistrato. Economico. Lasciato allo stato grezzo. Quattro metri di altezza. Come totem. Sono opera della comunità. Della collaborazione. Della partecipazione. E della curiosità verso un’idea di lavoro che non capiscono. Per questo ne sono attratti.

Ripiani avvitati con le teste delle viti visibili. Un errore di misura e restano i buchi delle prime avvitature. Scaffali per i libri.

Nella casa dove sono cresciuto non c’erano libri. I primi sono entrati quando andavo alle medie. Il grande Jules Verne. E poi Salgari. Scott. Poi di nuovo niente. Da grande ho fatto tutto io. Seguendo gli infiniti e imprevedibili percorsi personali che si sono incrociati con questa e quell’opera. Con questo e quell’autore. Quando in verità il bisogno impellente era, me lo ricordo bene, colmare le lacune.

Narrativa. La parte dominante occupata dagli americani. Orgogliosamente dico: libri comprati uno a uno e letti uno a uno. Tutti. Architettura. Libri disposti secondo una collocazione a memoria. Riviste in ordine cronologico. Stessa storia. Messi insieme uno alla volta. Altri scaffali più alti per l’archivio. I progetti di trenta anni. Sportelli per accogliere una raccolta di diapositive piuttosto inutilizzabile. O le licenze dei programmi. O cianfrusaglie varie. Sportelli per allestire un guardaroba. Cose tra il necessario il privato e la memoria. Scale per arrivarci. Con piccole ruote. Mobili. In ferro spazzolato.
Ma la necessità non so bene cosa sia. Ma so dov’è. Una zona popolata di cari amici. Certe storie dipinte di Buzzati. Le istallazioni di Kiefer alla Bicocca di Milano. L’elevazione di Baudelaire. La parabola di Lesabendio. Le sculture assemblate bullonate dipinte di Anthony Caro. I disegni e le architetture di Raimund Abraham. La scrittura poliedrica di John Dos Passos che racconta la città e le storie come sensori che salgono in alto. Le scale di John Coltrane. È quella parte di cultura che non mi è scorsa via ma ha fatto il suo lavoro di formazione. E si mescola con i cieli scuri della notte. E quelli trafitti dalle luci ravvicinate delle stelle. E poi la bellezza della stratificazione. Una cosa sopra l’altra. In tempi diversi. Nulla va sostituito. In cima all’edificio c’è la casa di mia sorella che ha scaffalature simili per cinquemila libri (1). Qualche anno fa ho attrezzato una stanza bianca dove ho raccolto disegni e fotografia di amici che da diverse parti d’Italia mi hanno inviato il proprio lavoro. Una specie di galleria di bellezza personale dove entrano poche persone. Ma ha libero accesso la luce del mattino impastata dei colori dei limoni e delle ortensie. La luce della sera sfiammata dai lampioni e dai fari (2). Ogni cosa è continuazione dell’altra. Il racconto di un tempo. Di un bisogno. Di una visione.
La finalità è la narrazione delle sensazioni. Le tappe. Come cercatori di tracce.
Pensiero. Urgente. Progetto. Realizzazione. Montaggio. I tempi e la disponibilità non sono più i miei. La fotografia. Ora tocca di nuovo a me. Il disegno. Concludo il percorso. Una specie di faticosa e necessaria calma. Ma c’è anche un bellissimo altro piatto della bilancia. L’attesa si trasforma in una consapevolezza inesprimibile dell’atto creativo. Prende alla pancia. Si diffonde con una sensazione quasi erotica. Tutto è narrazione. Un capitolo dietro l’altro.
Luigi fotografa con il banco ottico e con i provini polaroid. Scaduti. Quello che esce non si può prevedere fino in fondo. Né ripetere uguale. Troppe variabili. La temperatura ad esempio. Luigi tiene il provino per il tempo dello sviluppo sotto l’ascella. E quando tira via la pellicola l’immagine che si forma mi sembra sempre quella giusta. L’unica possibile. Poi asciugati, io ci disegno sopra. Ogni disegno è l’accoppiata di due pezzi unici. Soggetto agli errori. Infatti mi trema la mano ad ogni inizio. Oh, gli errori. Necessari come le stratificazioni. I totem _chiamiamoli così_ non sono completi se non a disegno finito. La visione sulla carta riveste il totem di un significato più ampio. O diretto. Ogni cosa si colloca nella mia personale mitologia. Dove si congiunge con altre provenienti da strade diverse e imprevedibili. O persino mai percorse. I provini sono rimanenze. Non ne esistono altri in commercio. Perciò tutto deve essere raccontato in quel numero di scatti e disegni. Anche ciò fa parte di questa ricerca.
La realizzazione riveste a sua volta il pensiero. Ne costituisce una verifica. E una ineliminabile àncora nel reale. Avviene e ad ogni passaggio si precisa un particolare di senso.
Si sale su scale strette. Scomode. La tensione verso l’alto porta con sé un lato oscuro. Nell’alto stesso. Il movimento come un lampo che illumini il cielo notturno. O nel pacciame nero disseminato sul terreno di partenza. O nell’intorno. Il disegno viene fuori così. Con i neri. Le pennellate di caffè. I graffi delle penne spalmati con l’acqua.

Penso che le cose hanno una propria vita. Le fai oggi ma poi vanno per conto proprio. Io spero che sia così. Oltre il tempo presente. Su questo pensiero certe volte svanisco al centro della triangolazione dei totem. Come al centro delle colonne di un tempio. Oh, quelle primitive che reggono il cielo. Il sotto svanisce. Come in giornate incerte quando un alone di foschia cancella ogni attacco a terra. Mentre il tocco con il cielo risulta nitido. Il respiro delle cose [o è uno sguardo che viene dall’altrove] va dall’uno all’altro. Una specie di grafo. Si può riapparire. Non sono più io e mi è concesso. E facendo partire la fantasia ti ritrovi con i tuoi amici di sopra. E altri ancora che avevi dimenticato. Si siedono accanto e raccontano. E donano. Ti ritrovi in un paesaggio. Fatto di visioni. Frasi e versi. Sensazioni e suggestioni. Fatto anche delle tue aspirazioni e dei tuoi sogni. Una vera e propria mappa. E finisce pure che ci credi.

Forse un metodo. Per tirare a galla quel tanto di bellezza e di senso di cui nelle zone e nei tempi più magri non si può fare a meno.
La realtà infine altro non è che le nostre costruzioni.

 

(1) Domusweb del 22 luglio 2013
(2) Domus n° 945 marzo 2011

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