Leggo America perduta e viaggio con Bill Bryson attraverso 22.475 chilometri di città paesaggi strade.
Bill Bryson è un giornalista americano che torna negli Stati Uniti dopo venti anni trascorsi in Inghilterra. E su una vecchia chevette dà vita ad un vagabondaggio nelle pieghe di un’America minore, da Des Moines per ritornare a Des Moines. Io viaggio con altri mezzi. Con la memoria. Con l’immaginazione. Con le suggestioni. Attingo da quello che ho visto lì. Da quello che la scrittura mi evoca. Dall’epopea personale costruita da tutti i libri americani che ho letto. Ma di più: dai film e dai fumetti.
È un’America rurale. Tutto sommato animata da un sogno provinciale. Luoghi squallidi. Che non si sono emancipati. Un’umanità meschina. Eppure per me hanno un fascino. Mi chiedo perché non avviene con i nostri luoghi omologhi. L’agro aversano per capirci. Ma perché ci sono le persone e le storie. L’America sa raccontare storie. I luoghi non esistono senza l’impronta di chi ci è passato e ha saputo narrarne la trama. Hannibal ad esempio. Mark Twain fuggì dal Missouri appena fu in grado di farlo senza ritornarvi mai più. O Rowan Oak dove visse Faulkner il grande per tutta la vita. E poi il deserto di Mojave. O il Grand Canyon. Posti dove hanno cavalcato Zorro e Lone Ranger. Ma anche il primo clan familiare americano, quelli di Bonanza che smettono di essere pionieri e difendono la proprietà. Infine Mount Rushmore. Ma Cary Grant che si arrampica sul naso di Jefferson per me conta meno di Tex Willer che dall’alto della collina (lo stesso scenario dell’inseguimento degli Indiani alla diligenza di Ombre rosse, ma si sa: la coerenza geografica arriva fino a un certo punto) vede il treno fischiare all’uscita di Flagstaff.
Non abbiamo molto da offrire noi “qui” a proposito di immaginario. Stessa arretratezza, in più terre inquinate e morti ammazzati per camorra. Qualche martire in carne e ossa. Ma nessun eroe mitologico.