I platani si ricongiungono sulla testa della strada. Una galleria di rami sbiancati. Tratti di azzurro filtrano e si sovrappongono. Cadono foglie d’oro. Lentamente volteggiano. Come la busta di plastica di American Beauty. E poi si posano sull’asfalto rugoso. C’è qualcosa di antico nel colore dell’oro. Come il grano. Basta questo minuscolo contatto per andare altrove.
1° luglio 1981. Cresce il grano dappertutto, tra le desolate macerie di Laviano; alto, quasi pronto alla mietitura. Impressionante immagine di una semina tragica del 23 novembre mentre in alto a centinaia volteggiano come ogni anno le rondini e mentre qualcuno va a riconoscere i luoghi, a recuperare ancora oggi qualcosa.
Me lo ricordo l’incanto di certe distese gialle. La luminosità. Il profumo. Non tanto antitesi, ma speculare volto delle macerie che abbiamo attraversato e sofferto. Una trama di formazione. I vecchi seduti nello spiazzo dove c’era una piazza. Qualcuno racconta di essersi salvato sotto un arco in pietra che spunta dalla distesa di grano. Se socchiudi gli occhi vedi solo una vastità. E un silenzio. E una volontà. Sono gli stessi vecchi che ogni volta e in ogni luogo, inevitabilmente, usciti chissà da quale portone si fermano a prendere fiato proprio in quel punto. Gli occhi appannati. Un bastone un cappello calato sulla testa. Un braccio innaturale senza giacca e un elastico stretto sulla camicia intorno al fievole muscolo, una mano alzata in un saluto lontano secoli, un gruppo di persone che sono l’umanità. La terra incontra l’umanità, cosa può esserci di più intrecciato. Non che in quell’istante fosse già in agguato la morte. Per l’età per le malattie per i dolori, no, non questo, ma la morte c’è per l’umanità. Punto. Una cosa del genere insomma. Una cosa che quando accade già non c’è più, la terra e l’umanità.
Mi piace pensare a una scrittura che ricopra come il grano. Sulla pagina della terra. Che tracci i profili delle cose attenuandone le forme. Che hanno sempre un che di aspro. Volgare. Un manto di altra evidenza che infine dispiega. Scrivere è così. Ma da certe correnti vorticose e invisibili che si agitano sotto il pelo di un’acqua immobile, qualcosa, certamente qualcosa, verrà fuori. Le macerie sono ancora intorno a noi. Minacciose. O anche, soltanto desolate. E ricostruire è un’opera eterna. Un terremoto quando accade si sovrappone agli effetti sociali e personali ancora vivi di quello precedente. I luoghi portano sulla propria pelle le ferite di un terremoto infinito.
Il paesaggio scorre con le sue figure. Una cascina imbrunita ha la sua dignità. Un albero isolato allunga sulla terra una specie di coda verde come il dorso di un lupo. Ma quello che conta sta sopra di me. Le foglie si staccano dall’alto come qualcosa che si sradica e calano come punti del presente. Certo, istanti. Effimeri. E per questo, assoluti. E andare su questa strada è come andare avanti e indietro nel tempo. In una specie di omaggio.
C’è sempre un punto di svolta. E se a guardare indietro non lo vedi, vuol dire che la vita ancora ti chiede di deviare il corso. Valli a cercare, allora.
da: SUD 80