Ho letto Infinite Jest di David Foster Wallace. Non è un libro come un altro. Mille e duecento pagine e altre duecento di note. Tutto scritto fitto fitto. Non so più quante centinaia di personaggi e storie. Tra l’assurdo e il malinconico. Giocatori di tennis. Ladri. Cospiratori. Tossicodipendenti. Una donna ricoperta dal velo per una bellezza estrema che coincide con la deformità. Cinefili. Travestiti. Un uomo gigantesco. Per me Don Gately pur imbottito di Demerol è il personaggio più bello. E poi pagine di straziante verità su destini perduti. Tutto estremo. Ma tremendamente simile a quanto ci circonda quotidianamente. Tutti scatenati alla ricerca della droga perfetta: infinite jest, il divertimento assoluto. Un film da cui non ti puoi staccare fino alla morte. Un futuro che è il presente. Personaggi che siamo noi. Ognuno di noi e tutti contemporaneamente. Ho riconosciuto quell’angoscia che ti prende quando ti sembra che nulla sia mai abbastanza. E al tempo stesso che tutto sia esterno a te. L’assurdo paranoico inseguimento del piacere infinito ne è la metafora e la sintesi. Altro non è alla fine che un eterno senso di vuoto. Dove si rintraccia solo la paura di vivere. E poi DFW non è (stato) uno scrittore qualsiasi. Un genio. E poi si è ucciso a meno di cinquanta anni. Il 12 settembre del 2008. Oggi. Impiccato. Davanti ai suoi cani. Io credo prosciugato dal fiume di parole che ha scritto. Ho conservato un ritaglio di giornale del 2011. In un’intervista dice: Personalmente credo che (il vuoto) è tamponabile solo grazie a degli strumenti interiori…per fare della psicologia spicciola, con l’amore per se stessi. Come dire…se pensi a quelle volte nella vita che hai trattato le persone con un amore e una correttezza straordinari…solo perché avevano un valore come esseri umani…Ecco, la capacità di fare altrettanto con noi stessi…di trattare noi stessi come tratteremmo un nostro bambino cheamiamo più della vita stessa.
Mi commuove.