Sono sempre molto attratto dagli artisti che frequentano linguaggi diversi. Nel novecento ci sono stati molti artisti/poeti. Da Scipione a Melotti a Scialoja. E anche poeti/artisti. Montale o Pasolini.
Filippo De Pisis nasce alla fine dell’ottocento e opera in pieno novecento. Le sue pitture sono note. Ma non conoscevo le sue poesie. Le ho lette. Hanno una forza autonoma. Vale a dire: è ininfluente conoscere il lavoro pittorico di De Pisis. Ci sono le poesie e basta. Che sono limpide (stavo per dire come i suoi quadri ma me lo rimangio).
È l’altro novecento. Quello che non abbraccia l’ermetismo. Ma resiste a costruire immagini di cristallina chiarezza. Una precisione dell’immagine e del sentimento che ti fa tremare. Una specie di lirismo struggente che a leggerlo ti invita a sciogliere i legacci e a nuotare in una sorta di acqua pulita. A me è capitato questo.
La poesia fa di questi miracoli. Anche se parla di ortiche (In un angolo sterposo/fra ferri rossi di ruggine, barattoli e immondizie/le vecchie ortiche isteriche,/). O di semplici campanelle (Nel verde folto contro il vecchio muro/sono comparse stamane d’un tratto/delle dolci bianche campanelle/). O di foglie secche (Cadono le foglie gialle dal fico/e dal mio cuore partono/vaghi sogni).
Mi viene da pensare che nel tanto bistrattato lirismo ci sia più sperimentazione che altrove.