I passi portano verso Brunelleschi. La strada si restringe tra cortine di palazzi d’epoca. La cupola occupa il triangolo di cielo ritagliato dai cornicioni aggettanti sulle logge e le finestre. Come Godzilla quando appare mostro gigantesco tra i grattacieli. La sfera in cima brilla rivestita d’oro. Ovunque getti lo sguardo incontri cose antiche. Una certa aria autorevole. Così quando in un punto che slarga, tra attraversamenti pedonali e intrecci di pedoni mi imbatto nell’edificio di Michelucci (1959-67) all’angolo di due strade mi pare di incontrare uno che finalmente parli la mia lingua. Un connazionale in terra straniera. L’edificio scontroso aggredisce l’intorno ma è piuttosto malandato. Alto. Potente. Screpolato. Brandelli di una pellicola di un colore sbiadito ricoprono il cemento dei piani superiori. Altri pezzi restano a vista. Altri ancora disegnati con scapoli di pietra e lastre segate. In parte abbandonato. Una nobiltà decaduta che lascia intatto solo il disegno. Le geometrie. Gli scarti continui. Gli slittamenti piano per piano. I ritmi. Gli accostamenti dei materiali. Cose sufficienti per riconoscere il valore e l’autore. Allora pensi che la forza dell’architettura quando c’è resiste alla sua stessa consunzione. Come un’impalcatura. La gente avanza distratta in processione. Sembra non credere più né al suo passato né a questo scialbo presente. Entro infilandomi nei varchi sempre più stretti tra i motorini parcheggiati. Si riconoscono gli arredi disegnati. Panche e armadi. Il pavimento di cotto è scheggiato. Nella sala i cavalletti asimmetrici che reggono la copertura inclinata poggiano su grandi pilastri rettangolari rivestiti di legno e sono attraversati da un camminamento a mezza altezza come un loggiato su piazza. I piani superiori sono inaccessibili e vuoti. Fuori una pioggerellina tradisce le sue intenzioni. Pioverà per tutta la giornata. Sui monumenti. Le persone. Il fiume. Sulla P incastrata tra il basamento di pietra e un angolare di cemento. Sul punto sbilenco. Sul segnale stradale che ne disturba la vista.
Davide Vargas