Qualche volta incontro Francesco Venezia dalle mie parti. Passeggia a mezza costa nella città. Vestito con cura. Impeccabile. Porta spesso un cappello. Di paglia nella stagione calda. La città si adagia sul ciglio della strada a monte. Con i suoi palazzi e il castello di pietra. I platani. I banchi di tufo. Poi scende a valle verso il mare.
Oggi la foschia scontorna i profili e precipita all’orizzonte con tutto il peso del cielo ferroso. E mentre il traffico si intensifica con i suoi gas e inutili strombazzate spariscono isola e penisola dalla vista.
Poi l’isola riappare. Con il suo inconfondibile profilo di donna. Una striscia di vapore dove il mare incontra la terra fa uno strano effetto. L’isola come sospesa. Pronta per il volo. Come un nuovo Monte Analogo. Le nuvole allungate grigie, poi bianche e spumose, poi una nell’altra e una sull’altra corrono su una linea orizzontale. Da qui con la città bagnata alle spalle sembra che le nuvole siano ferme e l’isola si muova. Come nei treni in partenza. Infine quando tutto torna a posto e certe zone si placano dall’orlo sfrangiato delle nuvole si irradia una luce azzurra.
Un cingalese è seduto sulla sua sedia. Con le mani sulle cosce. E il cartello al collo. Immobile. E non lo so. Non so perché. Ma mi vengono in mente i torturati di Guantanamo.
La Piramide di Francesco Venezia a Pompei è un’opera emozionante e drammatica.