La pubblicità si ricorda dell’architettura. Il museo di Bilbao è il più gettonato. Fa da sfondo ad automobili che viaggiano senza traffico e ansie. Liberi di andare come le linee dell’edificio. Non capita mai nella realtà dove lo sfondo è il ciarpame dell’edilizia. Solo la pubblicità si ricorda dell’architettura. Più degli amministratori o delle persone. Ma non sempre è un bene. Per le strade di Napoli c’è un tipo su un manifesto che mostra i rigonfiamenti del suo petto sotto una giacca attillata e rossa. E con questa postura sfrontata sta lì al centro di due ali di un edificio deformato da una specie di grandangolo. Riconosco il Salk Institute di Louis Kahn. Costruito in California dal 1959 al 1965. E mi viene in mente quella scena struggente da My architect. Dove il figlio Nathaniel Kahn lungo il suo viaggio alla ricerca del padre e dell’architetto a un certo punto volteggia sui pattini tra le ali dell’edificio. Sullo sfondo dell’oceano. Lungo le linee dei pavimenti. Sulle note di Long may you run di Neil Young. Forse pensa al padre. Dalla faccia distrutta dalle cicatrici. Dalla voce roca. Morto in una stazione della metropolitana come un barbone. Le persone che lo hanno conosciuto lo hanno amato. Le sue donne. I suoi collaboratori. Piangono a ricordarlo. Anche a distanza di anni. E Nathaniel che non lo ha mai conosciuto davvero solo nelle linee dell’architettura riesce a riavvicinarlo.
Non si può usare una siffatta architettura per una merda di pubblicità così.
Non mi sono ancora imbattuta in questa pubblicità che deforma la carica di forme astratte, di cristallina precisione su un invaso centrale a corte, spalto verso l’oceano, in un inchino dinanzi alla forza di un pettorale rigonfiato. Mi addolora il messaggio proposto, che insinua la sottomissione non solo delle costruzioni in calcestruzzo ma anche dello sforzo del pensiero, impegnato nella ricerca che in esse viene ospitato, alla sfida di un qualunque contemporaneo Tony Manero.
Egoisticamente colgo occasione per riappropriarmi delle sensazioni,sollevate dalla tua descrizione della scena di Nathaniel Kahn sui pattini, dei suoi volteggi alla ricerca del padre, ed emozionarmi ancora dinanzi all’architettura.