Questo è un capolavoro. Anche di più (se mai fosse possibile). 12 racconti perfetti. Con una precisione di linguaggio strepitosa, si capisce che dietro c’è un lavoro maniacale. Personaggi secchi, scolpiti senza fronzoli. Sono minatori, orfani, ex detenuti, benzinai, pugili alla deriva. Si muovono in un paesaggio desolato e minore, tra miniere e squallide tavole calde dove bevono sempre molto. Sono tutti soli, disperati, senza prospettive se non quelle dei minuti immediatamente a seguire. Niente più di questo il loro futuro. Ma capita a chi soggiace più al passato che a un’idea di emancipazione. La natura e le città sono come gli stessi personaggi. Pochi tratti di descrizione. Particolari essenziali. Al massimo qualche fiore. Genziane. Fiori di cicoria. Mais. Gli alberi sono moribondi. Molta ruggine ovunque. Anche sugli alberi. Nessuna poesia. O molta poesia, quella vera che non ammicca mai. Ne viene fuori una specie di mesta ELEGIA degli umili. Una cosa così:
Il vecchio alza gli occhi, mescola il cibo. «E tu riesci a campare bene?»
Ottie posa la forchetta come gli ha insegnato la vecchia.
«Ho il mio bel da fare»
«Aiuta a dimenticare, immagino»
Questo è il mondo che Breece D’J Pancake racconta.
Ma poi c’è tutta un’altra storia. La sua. D’J non ha scritto altro perché si è ucciso a ventisette anni. Nel libro alla fine c’è una lettera dell’autore che si raccomanda ad una fondazione per un premio che gli consentirebbe di guadagnare qualche dollaro per tirare avanti e continuare a scrivere. È una lettera così densa. Mentre all’inizio c’è una prefazione di John Casey e una nota di Joyce Carol Oates. In genere non le leggo neanche le prefazioni. Ma queste sono bellissime. E ne esce il ritratto di un talento che “non sapeva quanto fosse bravo, non sapeva quanto fosse colto; non sapeva di essere un cigno e non un brutto anatroccolo” (J. Casey)