“Tutto inizia e finisce al Kentucky Club” è uno di quei libri che a leggerlo mi produce una specie di felicità esagerata. Tanto da provare un barlume di dolore. A voi non è mai capitato? Mai che la bellezza della scrittura e delle storie fosse al di là delle tue possibilità come qualcosa che prema nella pancia e non riesca a librarsi? Oh, ogni tipo di bellezza può fare questo. Un temporale fragoroso. La terra bollente che si raffredda. I graffi delle stelle in un cielo notturno. Il mare. Certi occhi. Roba così. Lo ha scritto Benjamin Alire Sáenz. Uno di Old Picacho in New Mexico. È ambientato al confine con il Messico. Tra El Paso e Juarez. Il posto più pericoloso del mondo. L’ambientazione cara a Cormac Mc Carthy per intenderci. Si attraversa un ponte e si è negli Stati Uniti o dall’altra parte. A tuo rischio e pericolo. Sono racconti. E c’è questo senso della frontiera che divide. Una specie di barriera invisibile che però pesa su ogni cosa. Principalmente i rapporti. C’è un disperato bisogno di amore che si infrange sempre su di essa. Uomini e donne devastati. Tossici. Votati all’autodistruzione. Ma al Kentucky Club solo per una notte, o neanche quella, ci si può incontrare. E sperare. Mentre il rumore si affievolisce. Magari ti resta solo una fotografia sbiadita ma è già tanto. E poi come monumenti ci sono certi amori omosessuali che esprimono una potenza e una tenerezza quasi inimmaginabile. Un senso dell’amore autentico. Che non ha bisogno di futuro. Senza –ismi. Come quando si attraversa il ponte in due direzioni opposte. C’è il rischio di non incontrarsi mai più. Ma resta sempre qualcosa. Un grande libro.
Belli i dialoghi. Teneri, appunto. Mi e’ tornato in mente quello, splendido, nel libro di Puig Il bacio della donna ragno.
E il bar, cosi’ presente nella cultura americana, il lato intimo e diffuso di un Paese troppo disperso. Un luogo mitologico, basta accennarlo e lo vediamo tutti, no? buio bancone estranei alcool, il barista padre putativo di tutti i solitari.
Come in questo libro dove il bar e’ solo il pretesto per tenere insieme i racconti. Come la Strout dice: – Tu metti una carota nel primo racconto e poi, ecco, la stessa carota ricompare nel secondo, e nel terzo… (che la Strout e’ piu’ casalinga).
Ecco: ogni tanto a me viene la voglia di un bar cosi’ anche in questa italia dispersa. Un bancone e bere e parlare a un estraneo tanto prossimo.